25 aprile. Ora, come allora, per la libertà, di tutti. Ripartiamo dal welfare di Comunità

Il sistema di welfare deve passare da un modello assistenziale, costoso, inefficace e spesso autoritario, a modelli di welfare comunitari, generativi strutturalmente intrecciati con sistemi di economia civile produttiva che amplificano capitale e coesione sociale, le libertà e le capacità delle persone e, insieme, le risorse economiche. Qui il documento, a prima firma Gaetano Giunta, segretario generale della Fondazione di Comunità di Messina e Andrea Moriniroli, del Forum Diseguaglianze Diversità.

La Costituzione italiana si fonda su tre grandi principi: eguaglianza, libertà e dignità dell’uomo. Essa postula che tali valori sono fra loro correlati e inscindibili. Non può esserci vera libertà senza un grado progressivo di eguaglianza e senza il riconoscimento della dignità di ogni essere umano e reciprocamente non può esistere vera eguaglianza senza il riconoscimento pieno delle libertà personali e della dignità umana.
Non v’è dubbio che la visione sociale ed economica e, quindi, la prospettiva antropologica della Carta fondamentale della nostra Repubblica sia stata progressivamente negata dall’ideologia liberal-individualistica fondata su ipotesi di perfetto utilitarismo razionale, secondo cui la diseguaglianza è da considerarsi un incentivo per la crescita.
In nome di tale ideologia sono state costruite e tollerate non poche politiche pubbliche e pratiche del mercato che mettono in competizione alternativa i grandi principi costituzionali della libertà e dell’uguaglianza, della libertà e della dignità di ogni essere umano, teorizzando e attuando pratiche di redistribuzione sub-alterne alla crescita.
Le profonde diseguaglianze che caratterizzano i territori del nostro Paese su qualunque scala esso si osservi, le fragilità sociali, i processi strutturali di esclusione individuali e collettivi, le storie di oppressione ed i bisogni insoddisfatti di relazioni e di felicità falsificano questi approcci e reclamano nuovi paradigmi economici e sociali, nuovi approcci ai processi di trasformazione sociale, culturale, economica, urbana ed extra-urbana.

Il corona virus ci ha sbattuto in faccia tutto questo. In modo forte e imponente ci ha detto, in modo netto, che era la normalità di prima il problema: perché ingiusta, cattiva con i fragili, ingorda e onnivora con il suolo e i beni comuni.
In realtà il paradigma socio-economico dominante mira a creare separatezza fra l’economia e le altre dimensioni del sapere e dell’agire umano, non perseguendo una specifica concezione del bene e affermando definitivamente la frattura e la separatezza fra l’economia e qualunque altra forma dell’agire umano.
Da qui il modello dicotomico: il pubblico, identificato con lo Stato, deve occuparsi della solidarietà, attraverso la redistribuzione; il privato, cioè il mercato, deve preoccuparsi della sola efficienza, cioè della produzione di utile, nel massimo grado consentito e, tutt’al più, della filantropia.

E’, però, intuitivo chiedersi come possa lo stock di valori come onestà, legalità e fiducia, necessari per lo sviluppo e la crescita anche economica dei territori, restare immutato quando gli esiti del mercato non soddisfano o non permettono un qualche criterio, pur minimo, di giustizia redistributiva, o, ancora, quando le dinamiche economiche generano progressiva diseguaglianza, de-capacitazione ed esclusione delle persone, che per varie ragioni vengono centrifugate fuori dalla logica dell’economia, perché per esempio valutate inefficienti rispetto ai processi produttivi?
Non è un caso, come dimostra ogni evidenza empirica, che la crescita economica, sia correlata al livello di coesione e capitale sociale dei territori e al grado di espansione delle libertà personali sulle principali aree dei funzionamenti umani (abitare, lavoro, conoscenza, socialità, partecipazione). E tale correlazione appare sempre più evidente in gran parte del nostro Sud.

Contesti solidali e cooperativi e alte capacità delle persone sono infatti in grado di riattivare desideri, aspettative, progettualità dei soggetti e quindi le economie. Al contrario progressiva diseguaglianza, deprivazione culturale e relazionale, frammentazione sociale, precarizzazione del lavoro e dei sistemi di welfare oltre una soglia minima di tolleranza determinano una sorta di povertà-trappola, avvitando le dinamiche economiche verso trend irreversibilmente regressivi, ed escludendo dal mercato del lavoro, ma anche dal sistema di relazioni sociali, risorse potenziali straordinarie quali giovani e donne.
In questa prospettiva welfare e sviluppo economico sono un binomio inscindibile e il welfare è un fattore di sviluppo economico e umano.

Il nostro Paese potrà ripartire se riuscirà a promuovere e organizzare in modo strutturale nuovi approcci economici capaci di andare oltre la dicotomia crescente fra la dimensione economica e quella socio-culturale; fra Stato (unico titolare degli interessi pubblici) e mercato (sistema allocativo in vacuo).

Il nostro Paese potrà ripartire se riuscirà ad andare oltre l’approccio liberal-individualista e se saprà promuovere e strutturare forme evolute di economia civile capaci di porre la libertà delle persone più fragili, la progressiva costruzione di eguaglianza, la sostenibilità ambientale e la creazione di bellezza quali vincoli esterni della logica dell’efficienza e della massimizzazione del profitto.

Va superata la logica della mera delega o, peggio, le spinte alla competizione al ribasso. Mettere in gara il “capitale sociale” rischia di sacrificare l’unico bene che realmente conta: il bene relazionale. Ricostruire meccanismi di sussidiarietà circolare non toglie la centralità delle istituzioni pubbliche come soggetti generatori di una riqualificazione delle relazioni tra cittadini e le stesse istituzioni e come attori capaci di valorizzare e di promuovere un utilizzo trasversale dei saperi socialmente disponibili.

La grande questione del nostro Paese appare dunque la trasformazione del sistema di welfare e, con esso, del sistema sanitario, passando da forme assistenziali, contenitive e istituzionalizzanti, estremamente costose ed inefficaci, spesso disumane e divoratrici di capitale sociale e delle capacità delle persone, verso modelli di welfare comunitari, generativi, strutturalmente intrecciati con sistemi di economia civile produttiva che, al contrario, si alimentano e amplificano capitale e coesione sociale, le libertà e le capacità delle persone e, insieme, le risorse economiche.
Mai come oggi, in una prospettiva che senza grandi dubbi indica un’uscita dalla crisi con meno occupazione e più bisogni sociali appare urgente immaginare nuove forme di intervento e servizi che sappiano coniugare lavoro sociale con produzione di economie di prossimità, rigenerazione dei luoghi e del territorio, distribuzione dei compiti di cura senza cedere a asimmetrie di potere nelle relazioni di genere, ripristino della prevenzione e delle territorialità dei servizi per garantite migliore condizioni di vita per le persone più in difficoltà, a iniziare dagli anziani che in questi giorni sono stati particolrmente colpiti anche a causa di scelte con al centro il profitto di pochi e non certo la cura di molti.

Tale transizione implica un cambio di paradigma culturale capace di:
• riconsiderare il rapporto esistente tra i “modelli” dell’assistenza e quelli dello sviluppo economico, trasformando luoghi di discriminazione in opportunità di sviluppo;
• immaginare le modalità di ri-orientamento dei “costi del sociale” in investimento economico e relazionale, in valorizzazione dei legami;
• riconoscere che “l’incorporamento” delle variabili economiche in strutture sociali portatrici di senso, possa produrre nuove forme di sviluppo e di inclusione sociale, possa produrre redditi accessibili ai più deboli, possa allargare l’area dei diritti di cittadinanza;
• in buona sostanza andare oltre la convinzione che impegnarsi nel sociale è “altra cosa” rispetto all’impegno per lo sviluppo.

Dobbiamo trovare i linguaggi adatti per raccontare e produrre senso comune sull’idea che fare welfare e produrre emancipazione, è giusto dal punto di vista etico e civile, è spesso conveniente in termini di spesa, è decisivo per lo sviluppo economico. Anche per ricostruire alleanze con quelle aree di popolazione che disuguaglianze e processi di impoverimento hanno incattivito e orientato verso il rancore piuttosto che verso la cura.
Su questo va aperta con, coraggio e sincerità, una discussione nel mondo del civismo attivo e del privato sociale. Dobbiamo ridefinire cornici e prospettiva per non farci trovare impreparati. Per non correre il rischio di essere utilizzati come gestori di ultime stanze dove contenere gli scarti determinati da disuguaglianze e ingiustizia sociale. Dobbiamo capire e misurarci sulla nostra capacità di essere davvero comunità “resilienti” e non solo “rendicontanti”.
Non è più la sperimentazione coraggiosa ed innovativa: non basta la testimonianza, né il racconto reciproco che spesso serve solo a non sentirsi soli. Occorre puntare a trasferire tutto questo a livello più strutturale, ponendosi l’obiettivo di orientare le scelte politico-istituzionali.

In questa logica proponiamo alcune azioni a nostro avviso prioritarie e inderogabili e che non riguardano singoli ambiti di intervento, ma le politiche generali del nostro Paese. Più specificatamente bisogna intensificare con determinazione la lotta alla corruzione, estendere anche ai corrotti lo strumento della confisca e del riutilizzo dei beni per finalità economico-sociali e snellire in modo deciso le procedure necessarie per rendere efficiente tale misura. Non è più derogabile, nel rispetto dei vincoli internazionali, trasformare le politiche fiscali aumentando il peso della tassazione su rendite, patrimoni e transazioni finanziarie e diminuendo proporzionalmente quello su lavoro e reddito da economia reale. Per accelerare la transizione da modelli di welfare assistenziali verso più evoluti modelli di welfare comunitari, bisogna promuovere politiche che incentivino la de-istituzionalizzazione dei minori in difficoltà, degli anziani, di persone con problemi di salute mentale, ecc. per promuovere progetti personalizzati di progressiva espansione delle libertà. A tal fine bisogna riconvertire le costosissime rette a supporto dei processi di istituzionalizzazione, in budget di cura per sostenere progetti personalizzati, politiche di prevenzione e capitali di capacitazione orientati a promuovere sui territori sistemi socio-economici inclusivi, capaci di generare alternative concrete sui quei funzionamenti umani che determinano lo sviluppo dei territori (reddito/lavoro, casa, socialità, conoscenza). E’ questo un modo concreto di costruire modelli di welfare molto più efficaci ed efficienti; è un modo concreto per risparmiare ingentissime risorse economiche, è un modo concreto per ri-orientare risorse improduttive, spesso utilizzate per rinchiudere persone, in opportunità per lo sviluppo dei territori, fondato sull’idea che ogni persona è risorsa.
Per garantire lo sviluppo di modelli di welfare di comunità strutturalmente intrecciati con forme produttive di economia civile è strategico connettere asset di sviluppo legati alla green economy (per esempio risparmio ed efficientamento energetico, incentivi sulle rinnovabili, differenziazione nella gestione della filiera dei rifiuti, ecc.), alla valorizzazione dei beni ambientali e del patrimonio pubblico inutilizzato (per esempio in ambito turistico, dell’agricoltura biologica e bio-dinamica, ecc.).

Nella convinzione che lo sviluppo economico sia strettamente correlato alla progressiva costruzione di coesione sociale, all’apertura dei sistemi locali e all’espansione delle libertà dei cittadini più fragili, avendo sperimentato che politiche economico-sociali di comunità orientate a prevenire, a promuovere, a restituire potere e diritti ai cittadini più deboli, uscendo così dalle logiche emergenziali e assistenziali, sono insieme più umane ed economicamente più efficienti, si ritiene decisivo generare policy complesse capaci di potenziare e mettere in correlazione sui territori e nel Paese politiche educative e sistema scolastico, politiche d’accoglienza, politiche di rigenerazione urbana, sistemi produttivi, sistemi di welfare comunitari, politiche culturali e di attrazione di talenti creativi, misure multidimensionali di lotta alle povertà profonde, ricerca, sviluppo e innovazione, le capacità, spesso millenarie, dei nostri territori.

Gaetano Giunta, segretario generale della Fondazione di Comunità di Messina,

Andrea Morniroli, Forum Diseguaglianze Diversità

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