Inaugura il Macho, Museo d’Arte Contemporanea Horcynus Orca
Il 28 luglio, durante la prima giornata della XIII edizione dell’Horcynus Festival, è stato inaugurato il MACHO; Museo d’arte contemporanea Horcynus Orca. Il polo espositivo, curato da Martina Corgnati (storica dell’arte, docente all’Accademia di Brera di Milano, membro del Comitato Scientifico e direttore del settore Arti Visive della Fondazione Horcynus Orca), è il frutto di un progetto di ricerca sulle arti visive dei contesti culturali e geo-politici mediterranei intrapreso dal momento stesso della nascita della Fondazione Horcynus Orca, le cui attività espositive sono sempre state concepite non solo come evento effimero ma come strumento di arricchimento permanente del territorio e di sviluppo di una collezione, aperta a comprendere tutti i generi artistici e i linguaggi della creatività contemporanea.
La formazione di questa collezione aperta e in continuo arricchimento, è stata resa possibile grazie alla generosità dei numerosi donatori, artisti, collezionisti, critici e teorici, che hanno creduto nella Fondazione e, nel tempo, hanno scelto di collaborarci. Oggi il MACHO propone una collezione di un centinaio di opere, esposte nel percorso di visita permanente, e un archivio video di circa 500 titoli, opera di 200 artisti e più. L’inaugurazione costituisce un’importante tappa dell’infrastrutturazione culturale del territorio e insieme trasforma i percorsi di ricerca della Fondazione in Bene Comune della Città.
Nelle dieci sale si incontrano i percorsi dell’astrazione italiana, alcune personalità fra le più importanti emerse nel mondo arabo dal 2000 in poi, il progeto Signes de Rencontre, realizzato a Tunisi nel 2012 da Agostino Ferrari e Nja Mahdaoui, l’installazione dello spagnolo Ramon De Soto e i lavori dell’israeliano Tsibi Geva. E ancora le opere di uno dei più celebri artisti italiani contemporanei, Emilio Isgrò e quelle dell’artista palestinese Emily Jacir, esposte insieme ad Agnese Purgatorio e Natividad Navalon. Le opere esposte sono frutto di donazioni da parte degli artisti o della curatrice.
La prima sala è dedicata alle opere dei protagonisti dell’astrazione di segno, che ha attraversato la sua stagione più importante fra gli anni Cinquanta e Sessanta (Agostino Ferrari), dell’astrazione lirica e concettuale degli anni Settanta (Luciano Bartolini) e della linea “fredda”, progettuale e strutturale, delle ricerche artistiche italiane fra anni Ottanta e Novanta, teorizzata soprattutto dal critico Enrico Crispolti e rappresentata qui da Gianfranco Anastasio e Gianfranco D’Alonzo. Altre presenze in questa sala sono quella dello scultore Angelo Casciello e del designer e scultore Riccardo Dalisi.
La seconda sala ospita i lavori degli artisti egiziani Nermine Hammam, con Metanoia (2009), progetto fotografico realizzato nell’ospedale psichiatrico del Cairo, Khaled Hafez, con una tela di gusto pop-concettuale che combina divinità egiziane a supereroi occidentali, Amal Kenawy con una tela e il video della serie You will be killed (2006) dall’intensità visionaria e drammatica e uno straordinario lavoro di animazione, e Moataz Nasr con il video e un’installazione fotografica del lavoro intitolato Water (2000). Insieme a loro, un’installazione side-specific dedicata alla preghiera dal libanese Salah Saouli, realizzata per la Fondazione Horcynus Orca in occasione della mostra Sud-Est (2005).
La terza sala è interamente dedicata a Signes de Rencontre, un progetto, ideato e curato da Martina Corgnati, realizzato a Tunisi nel febbraio 2012, dove Agostino Ferrari ha compiuto una performance insieme a Nja Mahdaoui (1937), celebre calligrafo e artista tunisino. I due hanno dipinto insieme una grande tela a quattro mani, mettendo a confronto le rispettive culture e tradizioni: il segno astratto, su cui Ferrari lavora da mezzo secolo, e la calligrafia araba, che Madhaoui ha spogliato progressivamente da ogni significazione per trasformarla in gesto sensibile, vivo e libero.
La quarta sala espone l’installazione Homenaje a las aguas del Leteo (Omaggio alle acque del Lete), realizzata dall’artista spagnolo Ramon De Soto, recentemente scomparso, in occasione della mostra “Incontri Mediterranei–Nord-Ovest”. Sono dieci opere in acciaio ossidato dedicate al tema del tempo e della memoria; una riflessione che l’artista, fra i maggiori scultori spagnoli contemporanei, sviluppa da anni attraverso lavori di grande purezza formale che vivono da soli ma anche, soprattutto, nella relazione fra l’uno e l’altro nello spazio sospeso dell’installazione. Ramon De Soto è stato interprete sottile e profondo di quella linea astratta della scultura che in Spagna si è protratta per tutto il secolo e comprende figure celebrate in tutto il mondo come Eduardo Chillida o Jorge Oteiza. De Soto, nel tempo, ha creato veri e propri paesaggi plastici intensamente poetici, “luoghi” in cui la cultura orientale del silenzio e della meditazione incontra la pratica occidentale della costruzione di spazi artificiali.
La quinta sala è dedicata al lavoro di Tsibi Geva, fra i più noti artisti israeliani contemporanei, figlio di un architetto sopravvissuto alla Shoa e rappresentante autorevole di quello stile razionalista e Bauhaus, così importante nel paesaggio di Israele. Il confronto con la cultura del padre, continuamente articolato nel corso degli anni, ha prodotto in lui, pittore dall’intenso tratto espressionista, un bisogno di sviluppare le sue opere su scala ambientale, ricorrendo spesso ad oggetti e materiali di recupero. Il suo lavoro diventa così una potente riflessione sugli strati storici e culturali che danno forma all’identità di un popolo e di un paesaggio. L’installazione esposta era stata realizzata appositamente per la mostra personale del 2012 in occasione dell’Horcynus Festival, con materiali trovati a Messina: si intitola The bird inside stands outside (L’uccello dentro sta fuori), un riferimento alla dimensione complessa della pittura che, in realtà, non rappresenta nulla ma invece instaura una dialettica ricca e complessa fra interno ed esterno, appartenenza e relazione con l’altro, bellezza e violenza.
La sesta sala accoglie due installazioni e una porta donate da Emilio Isgrò, uno dei più celebri artisti italiani contemporanei, originario di Barcellona Pozzo di Gotto e anche per questo specialmente sensibile alla volontà di costituire un polo artistico e culturale forte a Messina che la Fondazione ha sempre avuto. Dice l’artista a proposito dell’installazione dedicata alle api scatenate: “Non è la prima volta che uso le api per le mie mostre, ma in questa occasione si tratta di api eoliane e siciliane, cioè di insetti in grado di sopravvivere all’inquinamento che sta distruggendo tutte le altre api del mondo. Come se la sapienza millenaria di cui le api sono portatrici, suggendo il miele dai fiori delle grandi culture mediterranee – da quella greca a quella araba, da quella fenicia a quella normanna – potesse ancora lanciare un segnale di fiducia a un’Europa che sembra sgretolarsi sotto il peso della sua stessa storia”.
La settima e ultima sala, dedicata alle esposizioni temporanee, affronta, declinato al femminile, il tema del viaggio, esperienza profondamente legata allo spirito che ha animato le ricerche e gli interessi della Fondazione, a partire dal suo stesso nome, “Horcynus Orca”, titolo del grande romanzo di Stefano D’Arrigo, narrazione del viaggio del moderno Ulisse siciliano, soldato allo sbando dopo l’Otto Settembre. I viaggi, veri o metaforici, presentati in questa sala, sono interpretati da quattro artiste donne, attive in punti diversi del Mediterraneo o lungo le rotte di quei tormentati flussi migratori che in questi anni hanno attraversato e continuano ad attraversare l’Europa: storico (2002) è il video di Emily Jacir, Crossing Surda, documentazione abusiva dell’attraversamento di un check-point fra Israele e Territori Palestinesi compiuto dall’artista stessa con la video-camera nascosta in una borsetta; Natividad Navalon presenta invece, attraverso alcune immagini fotografiche (2012) un’idea del viaggio nel tempo che ogni donna compie nel corso della sua vita; infine Agnese Purgatorio, che da moltissimo tempo dedica il suo lavoro e la sua attenzione alla dimensione della “clandestinità”, presenta un collage fotografico del 2007/08, monumentale ciminiera-comignolo che ricorda le navi e offre uno scomodo rifugio alle immagini dei migranti.